Da ‘sudditi’ a ‘cittadini’: il “cambio di veste” nella fruizione dei diritti. del professor Vincenzo Tondi della Mura

Da ‘sudditi’ a ‘cittadini’: il “cambio di veste” nella fruizione dei diritti.

 Il 2 giugno 1946 il popolo italiano fu chiamato a prendere una decisione fondamentale non solo in merito alla forma istituzionale da donare al Paese ma anche con riferimento al proprio destino. La popolazione dovette infatti valutare concretamente l’alternativa consistente nel mantenere intatta la propria condizione di sudditanza sancita nello Statuto Albertino del 1848 o acquisire uno status nuovo. Lo strumento a tal fine utilizzato fu il referendum: una richiesta fatta agli italiani, affinché questi potessero scegliere se conferire al proprio paese una forma di governo repubblicana o monarchica. Le due alternative erano profondamente differenti: se la Monarchia, da un lato, si caratterizzava per la presenza di un Re che deteneva il potere per via ereditaria, dall’altro, la Repubblica (dal latino res publica, ossia “cosa pubblica”) presupponeva che il potere spettasse al popolo e che il Capo dello Stato venisse eletto da quest’ultimo in maniera diretta o indiretta.

Tutto ciò ci permette di comprendere perché tale referendum rappresentò un momento simbolico di passaggio tra la veste del suddito e quella del cittadino; una veste che, peraltro, il popolo si apprestava già ad abbandonare nel momento in cui veniva designato quale unico depositario della possibilità di decidere per mezzo di un inedito suffragio universale, diretto, segreto ed anche femminile. Proprio questa possibilità che il popolo ottenne di decidere sul proprio futuro contribuì a qualificare l’evento come momento di radicale e profondo cambiamento, tanto più che alla popolazione fu richiesto non solo di pronunciarsi in merito alla forma istituzionale ma anche di eleggere i membri dell’Assemblea Costituente, il cui fine era quello di fissare la volontà del popolo in una nuova Carta costituzionale. Fu per questa via che alla precedente condizione di ‘sudditanza’, nella quale il popolo si trovava subordinato rispetto all’autorità sovrana, si sostituì quella di ‘cittadinanza’: uno status, ossia una posizione, contraddistinto da una serie di diritti e doveri da poter far valere nei confronti dello Stato e di cui nessuno poteva essere privato per motivi politici (Art. 22 Costituzione).

È bene sottolineare come a questo risultato storico si pervenne grazie all’operare simultaneo di due condizioni tra loro legate: il sacrificio ed il compromesso. Fu per il tramite del primo che il secondo ebbe modo di realizzarsi concretamente, rendendo possibile, attraverso una serie di parziali rinunce e conquiste, la creazione di regole fondamentali redatte da tutti e valide per tutti. Esemplari, a tal proposito, furono due episodi ed una circostanza: la scelta del re Umberto II di partire volontariamente in esilio, la decisione di Palmiro Togliatti di concedere l’amnistia e la volontà delle forze politiche di fare fronte comune. Il re, infatti, a seguito di alcune irregolarità nelle operazioni riguardanti la procedura da seguire per il referendum, avrebbe potuto far valere le proprie ragioni con il supporto di coloro che gli erano rimasti fedeli; decise, invece, di rinunciare a tale intento e partire, al fine di scongiurare nuovi verosimili spargimenti di sangue. Dall’altra parte Togliatti, che all’epoca era ministro di grazia e giustizia, dovette prendere una decisione altrettanto drammatica e fondamentale: pochi giorni dopo la partenza del re, egli propose un’amnistia al fine di rendere non punibili coloro che avevano commesso dei delitti politici nel corso della guerra di liberazione, ad eccezione di coloro che si erano resi responsabili di quelli più gravi. Per mezzo di tale faticosa amnistia (che segnò un sacrificio per le tante vittime delle violenze subite), fu permesso a tutti (partigiani, fascisti e vittime) di chiudere col passato e di ricominciare a costruire il futuro. Infine, le forze politiche antifasciste, unite inizialmente dalla sola lotta al fascismo, dovettero mettere da parte le proprie differenze al fine di dar vita ad un nuovo ordinamento condivisibile da tutti. Si consentì, per queste vie, la creazione di quella pace necessaria a costruire le fondamenta di una nuova convivenza sia politica che sociale; sicché l’Assemblea costituente poté godere di quelle condizioni necessarie per elaborare la nuova Carta costituzionale.

L’adozione della Costituzione rappresentò quindi un momento solenne di rottura col passato e di primo passo verso la costruzione del futuro. L’Assemblea Costituente, eletta lo stesso 2 giugno (giorno in cui il popolo scelse la Repubblica quale forma istituzionale su cui fondare l’ordinamento statale), sorse col preciso compito di elaborare una Costituzione all’interno della quale fossero centrali la libertà e i diritti; una Costituzione che, secondo l’onorevole Bozzi, era il risultato di una ‘non-rivoluzione’ e che costituiva il mezzo perché questa fosse finalmente compiuta. L’obiettivo era quello di attuare un rinnovamento di stampo democratico, basato sulla sovranità del popolo e finalizzato a rendere centrale la ‘persona umana’. Quest’ultima doveva essere intesa, per utilizzare l’espressione di Giorgio La Pira, quale «pietra d’angolo» dell’edificio costituzionale, ossia elemento primo e più importante in grado di sorreggere tutta la costruzione.

Tutto ciò ebbe un effetto travolgente sulle caratteristiche dei diritti e sulla loro fruizione: le due Carte, il vecchio Statuto Albertino del 1848 e la nuova Costituzione del 1948, appartenevano, infatti, a tradizioni differenti, che condizionavano fortemente tali aspetti.

Lo Statuto si inseriva pienamente all’interno di una logica statale di carattere garantista della libertà e dei diritti degli individui, ma anche non interventista. Ciò vuol dire che le libertà ivi espresse erano delle libertà così dette negative, le quali presupponevano l’astensione e la negazione dello Stato (per es. la libertà personale presuppone che lo Stato si astenga dall’imprigionare il singolo). Lo Statuto era, inoltre, una Carta volta strutturalmente a dar voce alle esigenze della sola classe borghese: la gran parte della popolazione, infatti, era esclusa dal diritto di voto.

La Costituzione, al contrario, accanto alle tradizionali libertà negative annoverava libertà di carattere positivo. Vennero in essa affermati non solo i diritti politici (per es. il diritto di voto) ma anche i diritti sociali, quei diritti che necessitano l’intervento attivo dello Stato e da cui deriva per il singolo la possibilità di avanzare una richiesta al fine di ottenere una pubblica prestazione (per es. il diritto all’istruzione gratuita negli anni dell’obbligo scolastico). Siamo ormai dinnanzi ad un’impostazione in cui diviene prevalente la volontà di garantire e attuare i diritti che prima erano solo stati affermati; una volontà da realizzare per mezzo della concreta attività delle istituzioni statali, da svolgersi lungo le linee guida tracciate dalla Carta fondamentale.

Esemplare al fine di comprendere il profondo cambiamento ideologico è l’articolo 3 della Costituzione, dove rinveniamo l’enunciazione del principio di uguaglianza. Tale principio era infatti già presente nell’articolo 27 dello Statuto del 1848. Qui si affermava che “tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi”. La Costituzione non fece altro che intensificare il principio e permettergli di operare in maniera concreta: la tradizionale affermazione dell’uguaglianza formale (primo comma), venne assistita e corretta da quella di uguaglianza sostanziale (secondo comma); fu, infatti, richiesto un intervento attivo della Repubblica ai fini della rimozione degli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione dell’obiettivo di uguaglianza.

L’impianto di democrazia pluralista così realizzatosi, che costituiva un sistema volto a rispondere alle istanze di tutti e fondato sulla pluralità dei gruppi, degli interessi e dei valori, donò finalmente a chiunque l’opportunità di trovare spazio e voce. Rese inoltre possibile il concreto godimento dei diritti: non per ultimo, a tutti fu infatti riconosciuta la possibilità di rivolgersi ad un giudice terzo e imparziale qualora questi ultimi fossero stati violati.

Occorre infine sottolineare come dal confronto tra le due Carte emerga con chiarezza un mutamento relativo alla considerazione dell’uomo. Se, infatti, nello Statuto Albertino questi veniva considerato esclusivamente in quanto individuo isolato, all’interno della Costituzione esso veniva in rilievo anche in quanto soggetto calato all’interno delle «formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (Art. 2 Costituzione); ciò in attuazione di quella concezione della persona umana proposta in Assemblea dai Costituenti di tradizione cattolica (La Pira, Dossetti, Moro, ecc.). Venne in tal modo sottolineata la natura sociale e relazionale dell’uomo, il suo intessere relazioni e legami di varia natura (per es. familiari) necessari al suo pieno sviluppo e, perciò, meritevoli di tutela e garanzia da parte dello Stato.

Una differenza fondamentale per ciò che riguarda la tutela dei diritti fu posta, poi, dalla stessa struttura delle due Carte fondamentali: lo Statuto, poiché flessibile, era modificabile mediante semplice legge ordinaria e i diritti in esso consacrati, di conseguenza, erano incerti e precari; la Costituzione, invece, caratterizzata dalla sua rigidità (sancita dall’articolo 138), poteva essere modificata solo attraverso un procedimento più complesso di quello previsto per la formazione delle leggi ordinarie.

In ultimo luogo, è doveroso sottolineare come oggigiorno la tutela dei diritti non sia solo rimessa alla Costituzione ma si sviluppi su più livelli, per il tramite dell’operare simultaneo di questa, della CEDU (Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e delle disposizioni europee. Il fine ultimo è quello di garantire il livello più alto di tutela possibile e permettere il raggiungimento della massima garanzia

dei diritti.

Per concludere, è fondamentale sottolineare come accanto ad un cambiamento di terminologia – mentre lo Statuto si rivolgeva esplicitamente ai ‘sudditi’, la Costituzione afferma la sovranità del popolo e, di riflesso, dei ‘cittadini’ –, vi sia stato un cambiamento più importante: quello costituito dal concreto sistema creato a garanzia dei diritti. È proprio quest’ultimo, infatti, a determinare con maggiore forza quel “cambio di veste” di cui si è inizialmente parlato.

E così, l’immagine del nuovo modello di ordinamento offerto dalla Costituzione è quella di “piramide rovesciata” prefigurata dal giovane costituente, Aldo Moro, per raffigurare la “Repubblica” come una società progressiva, capace di partire dal basso, dalla persona colta nel proprio contesto, per poi risalire alle formazioni sociali in cui la stessa opera (famiglia, scuola, associazioni, movimenti, partiti, ecc.), sino ad arrivare alle più alte istituzioni del sistema (enti locali, regioni, Parlamento, ecc.).

Si tratta però di un modello la cui realizzazione non è data una volta per tutte; non bastano le regole della Costituzione del ’48 per realizzarlo. Quelle regole devono essere continuamente rinnovate dall’impegno personale e partecipato di tutti noi. Ecco perché siamo cittadini e non sudditi.

Vincenzo Tondi della Mura

Ordinario di Diritto costituzionale

Dipartimento scienze giuridiche

Università del Salento

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