Legalità e lealtà di Michele Ainis per Camilla Aga

Leale, legale: è fortuita l’assonanza tra queste due parole? O invece la legalità evoca a sua volta un sentimento di lealtà?

«Siano le leggi signore dei cittadini e insieme anche dei re, se le trasgrediscono», scrive Platone nell’ottava lettera ai familiari e agli amici di Dione. E aggiunge: «Tutto questo fate con lealtà ed onestà». Dunque la lealtà – come la legge – vincola sia i governati sia gli stessi governanti. È il motto sul quale, due millenni dopo, verrà edificato lo Stato di diritto: «Non è il re che fa la legge, bensì è la legge che fa il re». Ma quale legge? Una legge che sia accettata come giusta, credibile, e perciò creduta. Insomma la lealtà di cui parlava Platone si riferisce agli uomini ma s’applica altresì alla legge. Altrimenti – dice Pericle ad Arcibiade, in un dialogo che ci ha trasmesso Senofonte – quest’ultima verrà vissuta come una sopraffazione, anziché come un coltello che spunta le unghie del potere.

Sicché la legalità subisce una ferita quando la legge stessa è falsa, ingannatrice. Può succedere, in Italia ne sappiamo qualcosa. È sleale la legge che abroga il beneficio fiscale introdotto da un’altra legge l’anno prima, per convincere le imprese ad investire in una zona disagiata; nel frattempo qualche imprenditore si sarà fidato della promessa normativa, salvo poi trovarsi con i conti in rosso. È sleale, in genere, ogni legge retroattiva, che mi comanda oggi ciò che dovevo fare ieri. Ed è sleale la legge che s’esprime in ostrogoto per non farsi capire, per non destare critiche, quando per esempio concede privilegi a questa o a quella lobby.

E a proposito della soglia fra onesto e disonesto: la corruzione è la nostra più grave malattia sociale, perché svuota in modo fraudolento il senso stesso della legalità. Ci aiutano, di nuovo, le parole. «Rompere» la legalità ha un significato diverso che «corrompere» le regole del vivere civile. Il primo è normalmente un atto individuale, benché sia possibile commettere reati in forma associativa; il secondo è un fenomeno sempre collettivo. Ma soprattutto il primo consuma una frattura dell’ordine legale, come quando attraversi un crocevia nonostante il rosso del semaforo; il secondo agisce in forme oblique, sotterranee, e infine modifica l’ordine legale, lo plasma in nuove forme. La corruzione di un metallo così come di un popolo ne degrada la sostanza, o se si vuole l’anima. Ecco perché c’è spazio per un’illegalità a suo modo nobile (quella dei partigiani o degli obiettori di coscienza), mentre la corruzione è sempre ignobile.

Eppure è questo il tarlo che scava tutta la nostra storia nazionale. Non prendiamo mai sul serio le parole del diritto, anche se la nomografia – la scrittura delle leggi – coincide con la democrazia. Cerchiamo piuttosto d’aggirarle, di piegarle ai nostri scopi, e almeno in questo la storia antica ci è maestra. Strabone racconta che i Traci ruppero nottetempo la tregua con i Beoti, giustificandosi perché il loro accordo si riferiva ai giorni e non anche alle notti. A propria volta Tacito ricorda l’espediente con cui l’imperatore Tiberio beffava il divieto di condannare a morte le fanciulle vergini: il boia le violentava un momento prima dell’esecuzione. Aggiunge Svetonio: tale la regola che sottraeva al patibolo la donna che avesse dignità di matrona, elusa anch’essa comminando alla colpevole la pena dell’esilio, e poi giustiziando l’esiliata con tutti i crismi del diritto. Tale soprattutto l’esperienza del nazismo, che non si curò mai d’abrogare la carta costituzionale di Weimar, lasciandola formalmente in vigore benché svuotata dal di dentro. Del fascismo, che lasciò sopravvivere del pari lo statuto albertino, calpestandone al contempo i principi liberali nella prassi quotidiana. Dello stalinismo, che nel 1936 varò una Costituzione nuova di zecca per sancire il ritorno alla normalità giuridica dopo la fase rivoluzionaria, dando però la stura alla stagione delle grandi purghe e del regime più dispotico e violento

Quante volte abbiamo usato tali stratagemmi per sottrarci al rasoio della legalità? Quante volte li abbiamo rovesciati anche contro la legge più alta? La frode alla Costituzione – e cioè l’ossequio formale ai suoi principi, insieme al loro tradimento sostanziale – riassume la nostra esperienza collettiva, nella seconda Repubblica al pari della prima. Un solo esempio: le “guerre umanitarie”, cui l’Italia ha preso parte dagli anni Novanta in poi. A prima vista il principio conservato nell’art. 11 Cost. è sufficientemente nitido: il «ripudio» della guerra ammette la sola guerra difensiva, e quest’ultima a sua volta si giustifica soltanto per resistere a un’aggressione esterna, consumata sul territorio dello Stato. Fu questa, d’altronde, l’interpretazione del principio generalmente accolta nei primi commentari alla Carta del 1947. Ma questa interpretazione venne già messa in crisi attraverso l’adesione dell’Italia al patto Nato (nel 1949), dal quale è scaturito un obbligo di mutua assistenza militare fra gli Stati contraenti, sul presupposto che ogni attacco armato contro uno di essi «sarà considerato quale attacco diretto contro tutte le parti»; e più di recente è stata poi rovesciata nella prassi dalla partecipazione delle nostre forze armate a operazioni belliche oltre confine, sia pure mascherate da locuzioni ipocrite come «operazione di polizia internazionale» ovvero, e per l’appunto, con l’ossimoro di «guerra umanitaria».

Eppure la Carta costituzionale evoca il concetto di lealtà (art. 120), non meno che la fedeltà e l’onore (art. 54). Parole legali, deformate da prassi illegali.

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