Globalizzazione,lavoro e disuguaglianza:il ruolo delle catene globali del valore di Elisabetta Magnani

L'articolo è tratto da Menabò di Etica e Economia (www.eticaeconomia.it) ed è stato pubblicato il 16 maggio 2018.Link https://www.eticaeconomia.it/globalizzazione-lavoro-e-disuguaglianza-il-ruolo-delle-catene-globali-del-valore/ 

Spesso ci si chiede come la globalizzazione stia cambiando il mondo del lavoro. Per rispondere a questa domanda non si può fare a meno di esaminare l’evoluzione dei modelli produttivi.

Ciò a cui assistiamo non è semplicemente lo spostamento della produzione dal Nord (Europa o USA) al Sud ( Africa o Asia) del mondo; i modelli produttivi che hanno iniziato ad affermarsi a partire dagli anni Ottanta hanno nell’interdipendenza un loro tratto distintivo. Sempre più frequentemente, catene globali del valore o Global Value Chains (GVC) organizzano la produzione di beni e servizi a livello mondiale segmentandola in diverse fasi, localizzate in aree diverse, spesso distanti migliaia di chilometri l’una dall’altra.

Scopo di queste note è dare brevemente conto di questa interdipendenza, degli attori che esse coinvolgono, in particolare le Piccole e Medie Imprese (PMI), e di illustrare le conseguenze che possono derivarne per il lavoro e la disuguaglianza anche attraverso l’insicurezza, non soltanto retributiva, che essa contribuisce a creare.

Un esempio dell’ interdipendenza economica che caratterizza i fenomeni di globalizzazione è offerto dalla dispersione internazionale delle attività proprie della catena globale di produzione dei computer, rappresentata nella Figura 1: le varie fasi, dalla fabbricazione dello scheletro di plastica, della memoria e dei software, ai servizi di distribuzione e di assistenza al cliente, sono spesso frammentate a livello globale e coordinate da imprese multinazionali localizzate prevalentemente in Europa o negli USA.

Fig. 1: Un esempio di catena di produzione globale: la produzione di computer

OCSE, Banca Mondiale e Organizzazione Mondiale per Il Commercio concordano nell’attribuire alle GVC un ruolo fondamentale nell’economia del 21esimo secolo, visto il loro impatto sul commercio, la creazione di posti di lavoro e di valore aggiunto, nonché sullo sviluppo economico di regioni tradizionalmente marginali. Di fatto, la produzione globale coinvolge sempre di più paesi a basso e medio livello di PIL. Tra i dodici paesi con il più alto valore del commercio in manufatti intermedi – cioè quelli che entrano nella produzione di altri beni intermedi destinati alla produzione di beni finali di consumo o d’investimento – figurano, in ordine crescente, Vietnam, Argentina, Cile, Indonesia, Filippine, Turchia, Brasile, India, Tailandia, Malesia, Messico e Cina. Secondo i dati delle Nazioni Unite (UN COMTRADE, BEC classification, 2013) , la Cina da sola rappresenta l’8,5% del totale del commercio di manufatti intermedi.

In alcuni casi – come, ad esempio, quello dei computer – le catene globali di produzione, sono dominate da imprese multinazionali che coordinano le fasi di produzione e di commercializzazione grazie ai diritti di proprietà di cui sono titolari. Tuttavia, questa è solo una delle modalità attraverso cui si attua il coordinamento e, da alcuni decenni, non è la più frequente; infatti, a partire dagli anni Ottanta, la frammentazione del processo di produzione è andata di pari passo con la diffusione di pratiche come l’outsourcing e l’offshoring. Emerge così il ruolo delle PMI, decisamente  rilevante per la crescita e lo sviluppo di intere economie.

Le PMI sono la struttura portante dell’economia europea, australiana e statunitense Come di recente sottolineato da Kuzmisin e Kuzmisinova, (“Small and Medium Enterprises in Global Value Chains” 2016), esse rappresentano il 99% delle imprese nell’Unione Europea e nel periodo compreso tra il 2011 e il 2016 hanno creato l’85% dei posti di lavoro (J. Haltiwanger, et al. Who Creates Jobs? Small Versus Large Versus Young, in The Review of Economics and Statistics, 2013). Non a caso l’imprenditorialità associata alle PMI è al centro di molte delle politiche economiche promosse dalla Commissione Europea per assicurare lavoro, crescita e sviluppo socialmente sostenibile.

L’imprenditorialità, vale a dire il lavoro che si applica alla creazione e gestione dei milioni di PMI che producono soprattutto per le multinazionali che dominano le catene globali di produzione, è molto diffusa geograficamente. I tassi più alti di imprenditorialità (gli imprenditori oscillano tra l’11 e il 17% della complessiva forza lavoro nazionale) si hanno, non sorprendentemente,   in paesi con i sistemi di welfare meno sviluppati – dove, cioè, è più “costoso” restare disoccupati – e in paesi, come la Tailandia, il Brasile, il Vietnam e il Cile, che si sono sviluppati ai margini dei grandi flussi commerciali attivati da queste catene globali di produzione (World Economic Forum, 2015),

I tassi di crescita delle PMI nei paesi dell’Unione Europea, sono, in realtà, estremamente eterogenei, come la tabella 1 illustra chiaramente:

Tab. 1: tassi di crescita del valore aggiunto e dell’occupazione nelle PMI, Unione Europea, 2014-2016

L’aspetto che qui più interessa è, però, l’impatto che i nuovi modelli produttivi, legati alle GVC, possono avere sul lavoro e la disuguaglianza. Da quest’ultimo punto di vista, i due fattori più rilevanti sono, da un lato, la distribuzione geografica delle attività economiche; dall’altro la diseguale distribuzione del valore aggiunto complessivamente creato dalle GVC tra le imprese che fanno parte della catena.

Partiamo dal primo fattore, la geografia. Nel modello classico dello sviluppo ritardato prevalente fino agli anni Settanta, lo spostamento del centro geo-politico del mondo dall’Europa e dagli USA all’Asia veniva letto in chiave di dipendenza strutturale di grandi agglomerati come la periferia – per esempio le colonie asiatiche degli ex-imperi europei – dal centro. Corollario di questo schema era la distinzione tra paesi ricchi e paesi poveri, che presuppone l’omogeneità delle economie nazionali al proprio interno. Viceversa, il modello che va sotto il nome di sviluppo compresso (N. Haworth, Compressed Development: Global value chains, multinational enterprises and human resource development in 21st century Asia, in  Journal of World Business, 2013) si focalizza proprio sull’eterogeneità nei singoli paesi e analizza la relazione di regioni, città, agglomerati rurali e urbani e singoli agenti con le catene globali di produzione. Dunque, un’interpretazione basata sulla coppia inclusione/esclusione appare insoddisfacente e in realtà le singole PMI fronteggiano il rischio di esclusione da quelle relazioni e dai vantaggi che esse possono assicurare. Tale rischio, accresciuto dallo squilibrio tra il gran numero di PMI e il potere delle imprese multinazionali, non viene di norma considerato eppure esso è percepito come elevato dalle PMI; inoltre, il modo nel quale viene condiviso dagli imprenditori e dai loro dipendenti ha conseguenze rilevanti sulla “qualità” dell’occupazione, ed in particolare sulla sua precarietà e la sua retribuzione.

Le GVC contribuiscono alla generazione di disuguaglianze a livello globale anche attraverso un altro canale: la distribuzione del valore aggiunto. Le fasi della produzione, coordinate a livello di GVC, sono molto eterogenee e per conseguenza i lavoratori che operano in ciascuna di esse – materiale o immateriale che sia – hanno accesso a fette di valore aggiunto ben diverse. La figura 2 ne dà una rappresentazione:

Figura 2: Contributi alla produzione di valore delle varie fasi di produzione in catene globali

La tradizionale subordinazione del lavoro manuale al lavoro intellettuale si riproduce nelle catene globali di produzione: Ricerca e Sviluppo (R&D), Design, Marketing e Servizi post-produzione si accaparrano le fette di Valore Aggiunto più grandi, mentre la produzione fa da fanalino di coda. Non stupisce quindi che i livelli salariali nelle PMI inserite in GVC siano spesso bassi (circa il 65% dei salari pagati nelle grandi imprese) e lo siano ancora di più nei paesi in via di sviluppo.

In realtà, oltre a quelle indicate, possono aversi conseguenze anche di altra natura sul lavoro. I fattori di successo più spesso menzionati, in particolare con riferimento alle PMI italiane, sono la vicinanza al cliente, le prestazioni di eccellenza, l’innovazione costante, e la complessiva capacità competitiva. Puntare su questi fattori non è, almeno in alcuni casi, senza conseguenze per il lavoro. Ad esempio, in questo contesto l’innovazione assume caratteristiche nuove; in un mondo a sviluppo compresso essa consiste anche nella capacità di upgrading, cioè di saltare da fasi di produzione a basso valore aggiunto, ad esempio quelle della produzione materiale, a fasi di produzione ad alto valore aggiunto, ad esempio quelle immateriali dei servizi post-produzione. Tutto ciò ha conseguenze per la rilevanza dei diversi tipi di lavoro e per le loro rispettive retribuzioni.

D’altro canto, la capacità competitiva, considerata decisiva per il successo dell’impresa, può derivare da strategie che hanno effetti contraddittori sul lavoro, sia quello dipendente sia quello imprenditoriale. Raramente viene esaminato il rapporto tra livello di competizione, imprenditorialità e benessere fisico e mentale dei vari agenti . Secondo il filosofo Byung-Chul Han, (The burnout society, Stanford University Press 2015), disturbi psichici molto diffusi come la depressione, l’ansia e i disordini da deficit d’attenzione e iperattività oggi sono manifestazioni dell’esaurimento emotivo (burn-out) che il capitalismo dell’imprenditorialità e la connessa cultura della positività causano. Non si tratta di fenomeni interamente nuovi, ma il rischio è che si aggravino.

Tutto ciò suggerisce che per valutare l’impatto delle GVC sulle complessive prospettive di sviluppo è necessario riferirsi non solo ai contesti transnazionali, ma anche e soprattutto a quelli trans-territoriali e intra-territoriali dove, peraltro, possono più facilmente emergere le difficoltà che le PMI, come sostiene la Asian Development Bank  incontrano a causa delle limitate risorse finanziarie e della scarsa conoscenza dei mercati globali a cui tentano di accedere.

Inoltre, appare necessario esaminare più a fondo le sfide che i nuovi modelli produttivi pongono al lavoro salariato e imprenditoriale e interrogarsi sulle politiche più idonee per dare soluzioni globali ai problemi che da essi derivano, evitando di trasferirli da un paese o da una regione all’altra, con il rischio di riproporre fantasmi del passato.

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