I SONETTI DEL FOSCOLO COME “RACCONTO” DINAMICO
di Pietro Gibellini
Fonte: Aa. Vv: Da Dante a Pascoli. Lettura di testi esemplari della lirica italiana, a cura di Paola Paganuzzi, Brescia, CCDC-Fondazione CAB, 1994, pp. 13-32.

Il testo sotto riportato e' pubblicato con il permesso del sito  www.liberliber.it/ che ringrazio di cuore.

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Che cosa dire, ancora, dei Sonetti del Foscolo, per non ripetere quanto una letteratura critica accurata e copiosa ha già scritto? Forse, una pista da battere, anche se non inesplorata[1], resta proprio una lettura di quei testi così come si presentano concretamente, cioè come un “libro”: o meglio, come la sezione più cospicua del volumetto di Poesie che l’autore formò accostando i dodici sonetti alle due odi. La scuola ci ha abituato, infatti, per necessità didattica, a leggere nelle antologie i sonetti presi singolarmente, avulsi dal “libro” che li conteneva. Essi diventano così perle lucenti ma isolate, svincolate dal filo più o meno tenace che li collega alle altre liriche; si collocano fuori, cioè, dalla struttura forte o debole in cui originariamente sono stati raccolti e ordinati dall’autore.
Ebbene, i dodici Sonetti del Foscolo preceduti dalle due odi stanno tutti racchiusi nella sottile plaquette che ci sta davanti, un’edizione anastatica del libretto di Poesie, elegantemente impresso dallo stampatore Nobile presso la corsia del Duomo all’angolo dell’Agnello, a Milano, nel 1803. Con le sue pagine larghe e ariose, coi suoi caratteri nitidi e tondeggianti, la veste tipografica trasmette sùbito quel gusto neoclassico, lapidario, che corrisponde perfettamente alla “forma interna” del testo.
Il problema, leggendo questi sonetti, è capire se ci troviamo o meno dinanzi a un canzoniere, che è anche una forma di narrazione in versi; e se sì, qual è il percorso interno di questa narrazione, quale il tragitto che porta dalla prima parola del primo sonetto, «Forse», all’ultima espressione dell’ ultimo sonetto, «almen libere carte». È un percorso breve, di soli centosessantotto versi: ma che son valsi al Foscolo la gloria, come dicevano i critici d’un tempo.
Ricapitoliamo innanzitutto la storia di questo libro, inteso come insieme testuale. Quella cui accennavo è la seconda delle due edizioni milanesi del 1803. Otto di quei dodici sonetti erano stati primamente raccolti a Pisa, sul «Nuovo Giornale dei Letterati», l’anno prima (come vuole la data impressa, ottobre 1802) o all’inizio dell’anno seguente (come si tende a credere); con gli stessi piombi, i sonetti furono riproposti in un estratto della rivista già titolato Poesie: Gli otto sonetti vi figurano nell’ordine seguente (in numeri romani, invece, registriamo quello definitivo):

  1. (II) Non son chi fui; perì di noi gran parte;
  2. (XII) Che stai? già il secol l’orma ultima lascia;
  3. (III) Te nudrice alle muse, ospite e Dea;
  4. (VIII) E tu ne’ carmi avrai perenne vita;
  5. (IV) Perché taccia il rumor di mia catena;
  6. (V) Così gl’interi giorni in lungo incerto;
  7. (VI) Meritamente, però ch’io potei;
  8. (VII) Solcata ho fronte, occhi incavati intenti.

Sono i sonetti meno famosi, perché i più celebri, i tre convenzionalmente noti come Alla sera, A Zacinto e Alla Musa, vennero aggiunti nella edizione milanese Destefanis dell’aprile 1803, mentre il dodicesimo ed ultimo, l’altrettanto celebre In morte del fratello Giovanni, venne aggiunto nella ricordata stampa Nobile, per il resto uguale alla precedente edizione Destefanis tanto nell’ordinamento che nella lezione. La struttura definitiva risultava perciò questa:

I. Forse perché de la fatal quiete [Alla sera, aggiunto];
II. Non son chi fui: perì di noi gran parte [già 1];
III. Te nudrice alle muse, ospite e Dea [già 3];
IV. Perché taccia il rumor di mia catena [già 5];
V. Così gl’interi giorni in lungo incerto [già 6];
VI. Meritamente, però ch’io potei [già 7];
VII. Solcata ho fronte, occhi incavati intenti [già 8]
VIII. E tu ne’ carmi avrai perenne vita [già 4];
IX. Né più mai toccherò le sacre sponde [A Zacinto, aggiunto]
X. Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo [In morte del fratello Giovanni, aggiunto]
XI. Pur tu copia versavi alma di canto [Alla Musa, aggiunto]
XII. Che stai? già il secol l’orma ultima lascia [già 2];

Quale era, dunque, il percorso tracciato dai sonetti nella loro prima forma, nel loro primo organizzarsi in libro? Designandoli con il numero romano che corrisponde alla loro collocazione nella compagine definitiva, in apertura erano accostati il secondo e l’ultimo, cioè «Non son chi fui» e «Che stai?». Rileggendoli, possiamo chiederci quale fosse il nesso che li legava:

Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.

Perché dal dì ch’empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
la fame d’oro, arte è in me fatta, e vanto.

Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carità di figlio.

Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.

Il sonetto apre il libro in modo esemplarmente foscoliano, peculiare anzi del “primo” Foscolo, del Foscolo arroccato attorno al proprio Io, nell’ostinata esibizione della propria soggettività in cui tutto l’Universo sembra restringersi in una monade o in un microcosmo. Già vi sono tracciate le coordinate tematiche dell’intero “racconto in versi”: l’ultima terzina rivela la condizione adolescenziale e ortisiana di un autore che indossa la maschera dell’eroe romantico aspirante al suicidio e incapace di compierlo:

Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.

Il secondo sonetto è ritenuto da alcuni non eccelso: letto isolatamente, pare infatti meritevole di un giudizio piuttosto severo; ma inteso come parte integrante di una architettura, si rivela un pilastro simmetrico al primo, quasi come la seconda valva di un dittico :

Che stai? già il secol l’orma ultima lascia;
dove del tempo son le leggi rotte
precipita, portando entro la notte
quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia.

Che se vita è l’error, l’ira, e l’ambascia,
troppo hai del viver tuo l’ore prodotte;
or meglio vivi, e con fatiche dotte
a chi diratti antico esempi lascia.

Figlio infelice, e disperato amante,
e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,
giovine d’anni e rugoso in sembiante,

che stai? breve è la vita, e lunga è l’arte;
a chi altamente oprar non è concesso
fama tentino almen libere carte.

Il Foscolo ventenne coniuga dunque il motivo classico dell’ ars longa vita brevis con quello del naufragio di sé e della storia, del sacrificio dell’amore e della patria. Ma, a dispetto dell’enfasi giovanile, il sonetto si collega lucidamente col primo, incrementandone il senso: se là il Foscolo dichiarava l’impotenza “ortisiana” a vivere e a morire, qui quella dolorosa impossibilità e quel “blocco” frustrante cercano una risposta: il giovane in lotta con se stesso e con i tempi iniqui intravede uno spiraglio salvifico nell’otium letterario; negata l’azione, restano i sogni di fama postuma attraverso le dotte fatiche e le libere carte.
È questa, dunque, la funzione che svolge «Che stai?» nella prima struttura. Cambiato di posizione nell’assetto definivo, in dodicesima e ultima sede come suggello e chiusura, il sonetto finisce per cambiare il suo significato, diventare quasi un altro testo, il cui senso è rivelato da altri versi-chiave. Così succede ai poeti: conferiscono un valore nuovo a poesie vecchie collocandole entro una nuova architettura verbale che è anche un’architettura di pensiero. Per i due testi in questione, quello che prima era formulato come programma, diverrà poi un consuntivo, ciò che era progetto diverrà una mèta: il poeta si proponeva un’evasione dai mali della sua giovinezza e dai tempi iniqui attraverso il cunicolo dell’erudizione e delle lettere; poi – dopo le grandi prove dei sonetti maggiori – attribuirà alle «libere carte» della poesia l’unica possibilità di misurarsi con la «fama»: verrà quindi abbozzata con sicurezza la linea argomentativa che sarà sviluppata dai Sepolcri. La confessione autobiografica cederà alla costruzione mentale:

E me che i tempi e il desio d’onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.

Questo passo dei Sepolcri viene spesso indicato come prova del persistere del sentimento doloroso dell’esilio, cui Foscolo si sentiva destinato da sempre: la sofferenza dell’uomo esule in patria, dell’uomo senza patria, dell’uomo che si sente sempre in un altrove rispetto agli altri uomini. Ma in quei versi va sottolineata l’espressione: «Muse… del mortale pensiero animatrici», dove è racchiusa l’idea che la Musa non è solo ispiratrice del canto melodioso, ma guida che infonde coraggio (animus) e vitalità (anima) al pensiero degli uomini. Chiarito dunque che, per il Foscolo, le ragioni della poesia sfumano in quelle del pensiero, torniamo al quesito di partenza: qual era, in questa prospettiva, il tragitto del primo Canzoniere?
L’itinerario tematico della raccolta del 1802 muoveva da situazioni esistenzialmente, biograficamente o psicologicamente proprie di un personaggio-autore fermo all’adolescenza, che sente il tempo come tempo fermo. Finisce il secolo, finiscono i vent’anni, e il poeta si ritrova figlio infelice e disperato amante, privo di patria, aspro a tutti e a se stesso, giovane d’armi e rugoso in sembiante. È la condizione di un essere fuori-tempo, del giovane-vecchio, del sosia di Ortis che ha visto sacrificati i valori supremi dell’amore e della patria.
I temi intavolati nella prima terzina di «Che stai?», ricorrono in vario modo in tutti i sonetti. Dopo il dittico iniziale (e dopo il terzo sonetto che, protestando contro l’abolizione del latino, riprende il motivo delle «dotte fatiche» svolto nel secondo), la zona centrale del libro sviluppa soprattutto il motivo amoroso; alla fine, in ottava e ultima posizione, l’autoritratto in versi, «Solcata ho fronte» , suggella la raccolta all’insegna del più dichiarato soggettivismo già squadernato nel sonetto d’apertura. Si direbbe che il tragitto del primo Canzoniere, dal punto di vista psicologico, sia ripetizione di momenti statici, varianti sperimentali di un’unica condizione esistenziale. Il percorso mentale, come detto, parte dell’Io («Non son chi fui») per arrivare nuovamente all’Io («Solcata ho fronte»): dall’autoanalisi (diacronicamente orientata) si giunge all’autoritratto (“fermato” sincronicamente).
L’autoritratto «Solcata ho fronte» lascia trasparire chiaramente il modello sottostante del sonetto alfieriano «Sublime specchio di veraci detti»[2] (1786) dove il feticcio dell’io era modellato dal poeta astigiano secondo la tecnica della corrispondenza fra tratti fisici e inclinazioni morali. Il Foscolo, però, pensava a se stesso in un modo particolare, che non coincide con quello del sonetto dell’Alfieri, né tanto meno con quello del giovane Manzoni, che a sua volta aveva imitato l’Alfieri componendo un sonetto-autoritratto da adolescente allo specchio (steso nel 1801, sarebbe stato pubblicato solo nel 1878). Ecco dunque il Foscolo par lui-même:

Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,
labbro tumido, acceso, e tersi denti,
capo chino, bel collo, e largo petto;

giuste membra; vestir semplice eletto;
ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;
sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
avverso al mondo, avversi a me gli eventi:

talor di lingua, e spesso di man prode;
mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
pronto, iracondo, inquieto, tenace:

di vizi ricco e di virtù, do lode
alla ragion, ma corro ove al cor piace:
morte sol mi darà fama e riposo.

Questo sonetto non piacque a Carlo Emilio Gadda, che al Foscolo dedicò un irriverente pamphlet dal lungo, ironico titolo Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo. Gadda era irritato dal sonetto-autoritratto e dal narcisismo del Foscolo, che chiamava nano, gobbo, ladro, che accusava di essere debitore insolvente, seduttore di vergini e di maritate, e per giunta incensatore di un tiranno come Napoleone. Altrove ho cercato di dimostrareche la complicata psiche gaddiana collegava in una comune antipatia, secondo processi analogici e “condensativi”, poeti-vati come Foscolo, Carducci e D’Annunzio e dèspoti come Napoleone e Mussolini: i tiranni e i loro cantori.[3] Ma l’ingegner-filosofo non tollerava specialmente l’esibizione dell’Io, evidente nelle molte varianti subite dal sonetto nelle numerose riscritture foscoliane: al «largo petto», all’«irsuto petto» aggiunse di sua invenzione un «nudo petto», suggerito per cortocircuito dal quello esibito dal mietitore Mussolini, altro personaggio detestato da lui per vizi comuni a Foscolo (esibizionismo, satirismo) e soprattutto per lo sfrenato egotismo.
Ma l’imitazione foscoliana dell’Alfieri non è pedissequa. Alfieri chiedeva a se stesso: «uom, sei tu grande o vil? muori e il saprai». Con una domanda-risposta, con un espediente retorico consono con l’inclinazione teatrale alfieriana, la morte è esaltata come giudice supremo della grandezza umana (è questo un tema che fruttificherà nel Foscolo maggiore, ossessionato scrutatore del traguardo della morte, con l’anelito di una fama imperitura). In Alfieri c’è però il gesto di un guerriero che agisce e lascia al misterioso giudice il responso; in Foscolo, invece, c’è minor perplessità: egli sembra certo che la morte sarà l’approdo felice di una vita infelice, che gli darà fama e riposo. Alfieri è proiettato nell’aldiquà, anche mentre contempla il passo con il quale ci si congeda dalla vita; Foscolo sembra attenderlo come il momento in cui il mondo dell’illusione svanisce per cedere a una prova definitiva.
Da parte sua, il Manzoni, nel sonetto giovanile «Capel bruno: alta fronte: occhio loquace»,[4] così variava la descrizioni delle doti morali e la sede della futura rivelazione di sé:

all’ira presto, e più presto al perdono,
poco noto ad altrui, poco a me stesso,
gli uomini e gli anni mi diran chi sono.

Si avvertono già i caratteri del Manzoni maggiore, in questa pur acerba rappresentazione di sé, nel rispecchiamento fisico che si fa pittura psicologica e morale. Fra i moduli codificati (la sincerità, la scontentezza), fanno capolino elementi personali: la timidezza, la malinconia, l’inclinazione al «perdono», quella pensosità che tempera la nota d’«ira» protoromanticamente eccitata di Alfieri e Foscolo, che dovettero conoscere poco il sapore del «pane del perdono», per dirla con padre Cristoforo. Qui il perdono è ancora un tratto psicologico, nei Promessi sposi diventerà un cardine ideologico. Ma soprattutto c’è già, nell’autoritratto del giovane Manzoni, l’idea di un giudice diverso dalla morte ipotizzata da Alfieri (e poi da Foscolo): giudice e “rivelatore” del destino sarà la storia, il consorzio degli uomini, il tempo che scorre, la “voce del coro”. Non il congedo dalla vita, ma la vita vissuta.
Abbiamo detto che nella prima forma dei Sonetti si configura un percorso mentale che muove dall’Io per arrivare all’Io. Che tracciato segue invece il diagramma della nuova forma? I sonetti vengono disposti entro una nuova cornice, attraverso la modificazione dei due punti capitali dati dall’incipit e dall’explicit. All’inizio viene posto uno dei quattro sonetti aggiunti, Alla sera, che apre il discorso in modo nuovo, non più puramente soggettivo; il percorso poetico e mentale prosegue con «Non son chi fui», già proemiale. Apripista trionfale non è più il Foscolo ortisiano che sa invocare e non darsi la morte (v. 14): quel posto è stato preso dalla Sera che placa coi pensieri del nulla eterno lo spirito guerriero che rugge dentro il cuore. Il sonetto del disperato egotismo è ora il punto più basso prima dell’ascesa, la selva oscura da cui occorre progressivamente liberarsi.

Segue il testo in difesa della lingua latina abolita nella Cisalpina («Te nudrice alle muse») che, nelle ultime terzine, si fa accorata difesa anche del toscano, sempre più imbarbarito:

Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste
reliquie estreme di cotanto impero;
anzi il Toscano tuo parlar celeste

ognor più stempra nel sermon straniero,
onde, più che di tua divisa veste,
sia il vincitor di tua barbarie altero.

I sonetti seguenti, di registro amoroso, attingono infatti, più che al repertorio dei classici greco-latini, all’amato Petrarca. Nati in occasioni diverse, vengono allineati secondo una progressione costruita non sul mutare di situazioni psicologiche o di eventi biografici, ma piuttosto sul cambiamento graduale dello stile praticato e delle fonti evocate.
Limitiamoci a qualche spunto paesistico: nel sonetto IV («Perché taccia il rumor di mia catena») dice il Poeta:

Tu sol mi ascolti,o solitario rivo,
ove ogni notte amor seco mi mena.

Il «solitario rivo» ci trasporta mnemonicamente al Sorga, in una Valchiusa trasferita in un clima neoclassico; e l’eco petrarchesca è volutamente esibita nella vetrina dell’ultimo verso:

m’insegnarono alfin pianger d’amore.

Questo rivo d’acqua solitario che fa da sfondo ad una condizione essenzialmente elegiaca, viene man mano agitando le sue acque in un paesaggio interiore più mosso e drammatico. Il quinto sonetto («Così gli interi giorni») si schiude su un notturno, con clair de lune già romantico, o almeno montiano se non ancora leopardiano:

… la bruna
notte gli astri nel ciel chiama e la luna,
e il freddo aer di mute ombre è coverto.

Se prima avevamo solo un cenno ad un «solitario rivo», ora si stende un paesaggio notturno, con onde che «strepitano» (v.10); e dove sovviene l’eco petrarchesca di «Solo e pensoso», i deserti campi cedono a più selvagge pinete:

dove selvoso è il piano e più deserto
allor lento io vagando…
Stanco m’appoggio or al troncon d’un pino…

Anche il suono si è fatto scaglioso e ruvido.

Nel sonetto successivo («Meritamente, però ch’io potei»), lo strepito delle onde è diventato un fremito che fa eco a un grido («or grido alle frementi / onde», con quell’enjambement che pare un singhiozzo); le acque si sono quasi umanizzate per specchiare l’animo del poeta:

…frementi
onde che batton l’alpi, e i pianti miei,
sperdono sordi del Tirreno i venti.

Il tragitto di stile, che dal Petrarca, attraverso Alfieri, porta all’Autoritratto, approdava al trionfo dell’Io: il sonetto «Solcata ho fronte», ultima pietra nella primitiva architettura, è collocato ora al centro della raccolta: è diventato quasi il punto più basso nell’inferno dell’egotismo foscoliano, dal quale il poeta risale dopo averlo attraversato.
La risalita avviene grazie ai sonetti aggiunti. In realtà, il primo componimento che troviamo nella raccolta, dopo l’enfasi dell’Io culminata nell’autoritratto, è un sonetto che già esisteva, quello dedicato a Firenze («E tu ne’ carmi avrai perenne vita»). La nuova collocazione, però, cambia la funzione cui il sonetto inizialmente adempiva: nella prima struttura della raccolta, la poesia valeva soprattutto per il paesaggio urbano e storico che introduceva il paesaggio naturale dei sonetti amorosi, secondo un climax che muoveva dall’amore beatificante (nella memoria) all’amore malinconico o doloroso. Ora, invece, il sonetto, attraverso la figura femminile che si fonde con un luogo letterario, getta un ponte tra l’Io e qualcosa che lo trascende, e che verrà toccato nel sonetto seguente, A Zacinto. Più che il ricordo personale e storico, più che il paesaggio, conta ora, nel sonetto a Firenze, la perennità del carme, dichiarata in apertura:

E tu ne’ carmi avrai perenne vita

Avviene così il riconoscimento di una patria (elettiva), di una «inclita riva» benedetta da una «Dea» (qui per metafora); subito dopo, le «sacre sponde» ionie, benedette da Venere fecondatrice, vedranno crescere quel sentimento fino all’agnizione di una grande patria dell’anima e di un destino degno di un eroe omerico.
I motivi che il sonetto a Firenze racchiudeva virtualmente, trattenendoli nello steccato soggettivo, sarebbero stati infatti sviluppati nella complessità archetipica di A Zacinto, cui dedicheremo solo un rapido cenno. La lirica spezza la precedente chiusura formale e psicologica sull’Io (il sonetto petrarchesco-alfieriano), attraverso un movimento ritmico che rompe gli steccati esterni e interni del sonetto tradizionale, animando le sue simmetrie rigide e cristalline. L’uso sciolto e intenso di arcature metrico-sintattiche sembra visualizzare il movimento lungo delle onde marine e del viaggio ulissiaco, sullo sfondo di una Grecia che è ormai una patria ideale e non soltanto biografica. Nel contempo, il poeta arricchisce i versi con risonanze fono-simboliche, ben percepibili dalla semplice lettura ad alta voce, con la serie fitta di fricative (f e v) che aleggiano come il vento sui suoni liquidi delle rime (acque : tacque), a loro volta risemantizzate giocando sull’espediente metrico della rima sovrabbondante e della rima equivoca, che ingloba e ripete le terminazioni-chiave onde e acque: «sp-onde, gi-acque, onde [sost.], n-acque, fec-onde, onde [‘da cui’, in rima interna], fr-onde, acque». Surrettiziamente moltiplicate, incorporate in altre parole, le onde e le acque sciabordano incessantemente, come l’eterno moto marino.
Contro il movimento che percorre le prime strofe, si erge la riva “petrosa” delle terzine: la riva di un Io ancora una volta sottratto al soggettivismo puro, e posto anzi a confronto con l’oggettivata figura di Ulisse: l’amara consapevolezza che la sorte di Ulisse, ancorché «bello di fama e di sventura», è pur invidiabile dal poeta che alla patria non potrà dare il suo corpo ma solo il canto, è temperata dall’ implicita certezza che almeno il canto potrà durare. La sbrigativa asserzione del sonetto dedicato a Firenze (la città avrà «perenne vita» nei «carmi») è qui più drammaticamente meditata, difesa, potenzialmente proiettata verso il finale dei Sepolcri, verso il teorema che solo il carme può donare perenne vita alla Città distrutta, all’Eroe vinto.
A ridosso di A Zacinto (aggiunto nell’edizione Destefanis) viene operata nell’edizione Nobile l’inserzione dell’ultimo sonetto composto, di matrice catulliana ma dettato da un dramma famigliare:In morte del fratello Giovanni. Concordemente celebrato per le sue qualità espressive, il sonetto rivela un regresso dal punto di vista del tragitto mentale di cui discorrevamo, quel tragitto di progressiva liberazione dalla prigionia dell’esacerbato soggettivismo. Non c’è, nel Foscolo, l’espressione dolente di Catullo («Eheu miser indigne frater adempte mihi»); non c’è il gesto pietoso del poeta latino, che recava al povero fratello un’offerta votiva. Giovanni è, nel sonetto di Ugo, quasi un vuoto, una larva, se non addirittura il pretesto per un colloquio fra il poeta e il suo Io, fra l’autore e la madre, che – dopo la stesura di A Zacinto – assume ormai il volto simbolico della Grande Madre, del grembo ammiotico che dà la vita e del grembo terrestre che riaccoglie il non più vivo. Culmine di poesia, il sonetto per il fratello morto segna un arresto nel tragitto, rivela la sua natura di interpolazione, di impreveduto, doloroso “accidente”.
Ecco, allora, collocarsi qui, in undicesima sede, un sonetto forse debole in sé, come Alla Musa, che contiene però il tentativo di trarre fuori dalla condizione disperata una possibile soluzione al trascorrere inesorabile del tempo, tempus edax che tutto trita e consuma. Il tema dell’arte eternatrice, destinato a crescere nella mente e nella poesia del Foscolo fino al gran teorema dei Sepolcri, è qui ancora una volta abbozzato: il poeta vagheggia un’arte-medicina, un’arte consolatrice, non ancora eternatrice; ed è un vagheggiamento senza esito, poiché i versi scarsi e faticosi possono a stento dare sfogo all’amarezza interna:

E tu fuggisti in compagnia dell’ore,
o Dea! tu pur mi lasci alle pensose
membranze, e del futuro al timor cieco.

Però mi accorgo, e mel ridice amore,
che mal ponno sfogar rade, operose
rime il dolor che deve albergar meco.

Il poeta è ancora nel mezzo del guado fra l’Io dell’Ortis e l’oggettività dei Sepolcri, fra il ripiegamento sul proprio strazio individuale e l’ipotesi di un’arte che garantisca eternità non solo all’individuo ma alla stirpe, non solo alla tomba dell’eroe ma alla Città di cui non son rimaste neppure le rovine.
Il senso di questo dilemma si ritrova anche per via diacronica, nella rielaborazione del sonetto Alla sera, di cui dal 1985 conosciamo una prima redazione sulla quale la critica delle varianti non si è forse finora esercitata adeguatamente. La trascriviamo qui, riportando in calce le modifiche subite successivamente dal testo:[5]

Forse perché della fatal quiete
tu sei l’immago a me sì cara vieni
o sera! e quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nemboso aere inquiete
tenebre e lunghe al freddo mondo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai del mio pensier su l’orme
de’ cari anni passati; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde or meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace dorme
quell’istinto guerrier ch’entro mi rugge.

VARIANTI DELLA REDAZIONE DEFINITIVA: v. 2 E quando (maiuscolo); v. 5 dal nevoso aere; v. 6 all’universo meni; vv. 9-10 Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme/ che vanno al nulla eterno ; v. 12 onde meco; v. 13 pace, dorme (con virgola); v. 14 quello spirto guerrier

La prima redazione del sonetto era un autografo (poi disperso, ma trascritto da mano attendibile) interfogliato in un esemplare del De rerum natura:: piace pensare che, sulle pagine del poema di Lucrezio, Foscolo abbia potuto cogliere il problema essenziale dei sonetti (trovandone il cardine ordinativo) e della sua ricerca poetica e di pensiero: la risposta con cui fronteggiare la desolazione del «nulla eterno».
La prima operazione del poeta fu proprio alzare lo sguardo dall’invischiante orto della soggettività verso orizzonti più vasti. Benché possano sembrare minime, le correzioni al sonetto obbediscono a una logica unitaria, formando, come avrebbe detto Contini, un sistema dinamico di rilevante significato. Scrivendo in un primo tempo «nemboso aere», Foscolo disperdeva in sovrabbondanti dettagli paesistici ciò che andava formulato con l’imperiosità di una legge scientifica: la costanza dell’affetto provato dal suo animo. Si aveva l’impressione di un catalogo di stagioni (nubi estive, zefiri primaverili, nembo autunnale, freddo mondo invernale), ridotto poi ad una essenziale polarità: riassunta nell’aggettivo «nevoso» la grande stagione delle notti lunghe, l’esornativo «freddo mondo» si neutralizzava nel più scientifico e distaccato «universo». Volgendo poi al plurale l’espressione «del mio pensier», il poeta dilatava l’idea puntuale e ossessiva trasformandola in ricco sistema di pensieri. E cambiando l’oggetto di quei pensieri, sostituendo all’agrodolce memoria dei «cari anni passati» il brivido metafisico del «nulla eterno», Foscolo smetteva di ripiegarsi nostalgicamente sul suo Io per affondare lo sguardo nel mistero della vita e del cosmo; al novello Petrarca ortisiano che lacrima su se stesso succedeva un poeta pre-leopardiano (ispirandosi alla Sera foscoliana, Leopardi avrebbe dato con l’Infinito una delle più alte prove di poesia-scienza, di lirismo sliricato, audacemente fondato sulla impoetica sequenza dei deittici «questo» e «quello» che ritmano come un pendolo il fluire del componimento). Persino il particolare della scomparsa di un avverbio di tempo diventa significativo, correlato con gli altri interventi: «delle cure onde or meco egli si strugge», aveva scritto alludendo al reo tempo che consuma insieme sé e il poeta; quell’avverbio «or» individuava un hic et nunc che limitava l’amarezza di una legge universale all’accidente di una vita personale, anzi ad un momento presente.
Riletto nell’organica tessitura definitiva, il sonetto ci appare davvero cambiato: dalla reminiscenza dell’Ortis siamo pervenuti al presagio dell’Infinito, o – per rimanere entro un tragitto tutto foscoliano – da un “blocco”y personale siamo approdati alla ricerca di un’arte salvifica: che è, in definitiva, il senso essenziale del tragitto della raccolta, messo a fuoco nella struttura definitiva.
La risposta con cui fronteggiare l’angosciosa interrogazione poteva offrirla allora il vecchio sonetto «Che stai? già il secol l’orma ultima lascia», promosso al rango di conclusione, di congedo dal “libro” dei sonetti: proseguendo idealmente il filo interrotto nel sonetto undecimo, dove il poeta contemplava sgomento le «rare operose rime», riprendeva fiducia nelle «fatiche dotte» che potevano lasciar «esempi» ai posteri; nella nuova collocazione, l’antico proposito di immergersi nelle sudate carte come in un oblìo terapeutico si convertiva nell’incipiente fiducia in una poesia dell’intelligenza. In questa poesia Foscolo non si specchiava più come un dolente Narciso: scorgeva riflesso dentro di sé l’Ulisse di ogni tempo, forse già Ettore onorato di pianto, e il suo cantore. Sigillando il tragitto mentale dei Sonetti con il proposito di cercare la «fama» nelle «libere carte», l’ultimo sonetto non indicava ancora un traguardo certo: ma additava sicuramente una “uscita” verso la Musa dei Sepolcri, verso l’«animatrice» del pensiero umano.

NOTE

[1]   Nella imponente bibliografia critica sull’opera del Foscolo (si vedano ad esempio i tre grossi volumi degli Atti dei convegni foscoliani [Venezia-Milano-Firenze 1979], Roma, Poligrafico dello Stato, 1988) non mancano riferimenti che pongono a confronto i sonetti, accennando anche alla loro collocazione strutturale; scarseggiano però i contributi dedicati a un esame sistematico dei dodici sonetti come insieme organico; fra questi si distinguono il Saggio sul Foscolo di Enzo Noè Girardi (Milazzo, Spes, 1978), le osservazioni di Franco Gavazzeni nel volume delle Opere del Foscolo da lui curato (Milano-Napoli, Ricciardi, 1974, tomo I) e quelle di Donatella Martinelli nella introduzione alle Poesie foscoliane (Milano, Mondadori, 1987).
[2] Vittorio Alfieri, Rime, a cura di Francesco Maggini, Asti, Casa d’Alfieri, 1984, son. CLXVII..
[3] Gadda e Foscolo, nel mio volume L’Adda ha buona voce. Studi di letteratura lombarda dal sette al Novecento, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 253-303 (ma già in “Giornale storico della letteratura italiana” 505, 1982); Sul rapporto Gadda-Foscolo si veda anche la Nota al testo di Franco Gavazzeni concernente Il guerriero, l’amazzone e lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo (in Opere di Carlo Emilio Gadda, ed. diretta da dante Isella, vol. IV, Milano, Garzanti, 1992, p. 1067-1100).
[4] Alessandro Manzoni, Poesie e tragedia, a cura di Pietro Gibellini e Sergio Blazina, Milano, Garzanti, 1990.
[5] La versione, rinvenuta e segnalata da Pier Carlo Masini nel 1985, è riprodotta in appendice al volumetto: Ugo Foscolo, Letture di Lucrezio, a cura di Franco Longoni, prefazione di Gennaro Barbarisi, Guerini e associati, Milano, 1990. Essa è ricavata da una copia di pugno di Giulio Del Taja, che reca la seguente annotazione: «D’Ugo Foscolo: l’originale è nella traduzione del Lucrezio di Marchetti in un foglio che serve di postille alle pp. 82-83»; l’autografo foscoliano è dunque perduto, ma il Del Taja fu un trascrittore preciso e uno studioso affidabile.

Pietro Gibellini
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Dall’incipit del libro:

Alla sera
Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD)

Forse perché della fatal quïete
tu sei l’immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.