L’IMMAGINE DELLA CITTÀ NELLA LETTERATURA SUMERICA di Lorenzo Verderame - "Sapienza" Università di Roma

La città ricopre un ruolo centrale nella cultura sumerica1. È qui che l’uomo vive e svolge gran parte delle sue attività ed è qui che è stato creato dal dio al principio dei tempi. Tale visione è frutto di una lunga elaborazione durata diversi secoli. Nella seconda metà del IV millennio, la città costituisce l’elemento più rappresentativo di quella serie di processi tecnologici e sociali che caratterizzano il passaggio dal neolitico e che Vere Gordon Childe definì, non a caso, come “rivoluzione urbana”2. Nel periodo successivo, il sistema mesopotamico si strutturerà in una serie di città-stato con le proprie caratteristiche, una propria forma di governo, un calendario, un sistema di pesi e misure, e un pantheon, al cui vertice sta il dio poliade e la sua famiglia.Si tratta del lungo periodo Proto-Dinastico (prima metà del terzo millennio),durante il quale saranno elaborati gli elementi caratteristici della civiltà mesopotamica,come la regalità3. In tutti questi processi la città svolge, dunque, un ruolo centrale.
Nel presente contributo delineerò i tratti essenziali dell’immagine della città nella letteratura sumerica. Nell’affrontare argomenti relativi alla civiltà sumerica ci si trova davanti a un paradosso4. Il periodo in questione, che corrisponde
grosso modo alla seconda parte del terzo millennio, ha fornito numerosi documenti di vario tipo, principalmente economico-amministrativi e celebrativi. I testi letterari in lingua sumerica, al contrario, provengono soprattutto dal periodo paleo-babilonese, quando il sumerico come lingua parlata era ormai scomparso da tempo5; questi testi costituiscono, ormai, il tratto terminale di una lunga tradizione su cui si sono andati stratificando elementi
storici e ideologici di periodi successivi agli eventi narrati. Ci troviamo dunque davanti a una scollatura tra il primo tipo di dati, contemporanei agli eventi storici, di natura quantitativa, ma spesso incapaci di offrire una visione sufficiente a un’analisi generale, e il secondo tipo di dati, letterari, qualitativi, descrittivi, ma anche omogeneizzati, posteriori, rielaborati. Nella ricerca che ho portato avanti non ho potuto fare a meno di focalizzare la mia attenzione su quest’ultimo tipo di documenti, sottolineandone la natura complessa, ma, soprattutto, tentando di delineare i tratti generali e analizzando quelli che invece si discostano dal filone principale quale testimonianza
di una particolare situazione storica. Il dio e la sua residenza, ovvero la sorgente di vita e il centro della città
Centro spaziale, ideologico, e, non da ultimo, economico, della città è il tempio, la residenza del dio6. È qui che il dio mediante la sua statua7 espleta le normali funzioni come se fosse un essere umano. In forma ritualizzata consuma i pasti e viene vestito, oltre a essere periodicamente lavato e unto di oli profumati. Il dio può anche “muoversi” per raggiungere la dea con cui si unisce periodicamente, e, più in generale, il dio “si muove” per ricevere o fare visite agli altri membri della sua famiglia. Questi spostamenti possono anche
estendersi fuori dal tempio e dalla città, per raggiungere, per via fluviale, il santuario di Nippur8. Qui nell’Ekur, il dio riceve da Enlil, capo del pantheon sumerico, la conferma delle prerogrative e del mandato per governare la propria città. Così il dio luna Nanna-Su’en risale in barca fino a Nippur per chiedere al dio Enlil, suo padre, che gli conceda l’abbondanza di prodotti per la sua città Ur:

 
Dammi, o Enlil, dammi – che io possa andare a Ur!

Nel fiume, dammi l’abbondanza di carpe – che io possa andare a Ur!
Nel campo, dammi orzo e lino – che io possa andare a Ur!
Nella palude, dammi la carpa kuda e la carpa suhur – che io possa andare a Ur!
Nel canneto, dammi la canna vecchia e la canna giovane – che io possa andare a
Ur!
Nella foresta, dammi lo stambecco e la pecora selvatica – che io possa andare a

Ur!
Nella piana dammi l’albero masˇgurum – che io possa andare a Ur!
Nella piantagione, dammi sciroppo e vino – che io possa andare a Ur!
Nel palazzo, dammi lunga vita – che io possa andare a Ur!
(Viaggio di Nanna-Su’en a Nippur, 331-339)

 
È infatti la presenza del dio nella città, ovvero nel suo tempio mediante la statua, a fondare e assicurarne il giusto e corretto funzionamento. Nel noto inno a Enlil è il dio a permettere che tutto si realizzi, senza di lui nulla potrebbe avvenire:

Senza la grande montagna Enlil,
nessuna città sarebbe costruita, nessun insediamento sarebbe fondato,
nessuna stalla sarebbe costruita, nessun ovile sarebbe fondato,
nessun re sarebbe elevato, nessun en sarebbe generato,
il sacerdote lumah e la sacerdotessa nindigˆir non si sceglierebbero con l’extispicio,
le truppe non avrebbero generali o capitani,
nel fiume l’acqua gorgogliante di carpe ...,
la carpa dal mare non ..., non guizzerebbe,
il mare non genererebbe il suo abbondante prodotto,
i pesci dell’abisso non depositerebbero le loro uova nel canneto,
nessun uccello del cielo costruirebbe il nido nell’ampia terra,
nel cielo le dense nubi non aprirebbero la loro bocca,
nel campo l’orzo e il lino nel prato non abbonderebbero,
nella piana la vegetazione non crescerebbe abbondantemente,
nei frutteti gli alti alberi della montagna non produrrebbero frutti.
Senza la grande montagna Enlil,
Nintur non ucciderebbe e non colpirebbe mortalmente,
nessuna vacca partorirebbe il suo vitello nella stalla,
nessuna pecora nel recinto genererebbe l’agnello gagig,
gli esseri viventi non si moltiplicherebbero ...,
gli animali a quattro zampe non si propagherebbero e non si accoppierebbero.
(Inno a Enlil (A), 109-130)
Ugualmente la situazione originaria di Dilmun è ancora quella caotica,
cui il dio imporrà il giusto corso della vita, con la sua bellezza e i suoi numerosi
drammi, mediante la sua presenza, ovvero stabilendo in Dilmun la sua
residenza:
In Dilmun il corvo ancora non gracchiava,
la pernice non strideva,
il leone non uccideva,
il lupo non portava via gli agnelli,
il cane non sapeva ... i capretti,
il maiale non sapeva mangiare l’orzo.
(Quando) la vedova spargeva malto sul tetto,

gli uccelli del cielo non mangiavano quel grano.
I piccioni non chinavano la testa.
Nessuno che fosse malato agli occhi diceva: “sono malato agli occhi”,
nessuno che fosse malato alla testa diceva: “sono malato alla testa”,
nessuna vecchia diceva “sono vecchia”,
nessun uomo diceva “sono vecchio”,
nessuna ragazza che non si era lavata ... nella città,
nessun uomo attraversando un canale diceva: “si sta facendo scuro”,
nessun araldo faceva il giro dei suoi confini,
nessun cantore diceva “elulam”.
Non si facevano lamentazioni ai bordi della città.
(Enki e Ninhursagˆa, 11-28)

La residenza terrena (tempio) e il supporto mondano (statua) del dio sono tuttavia fatti di materia corruttibile e, come tali, soggetti a periodici interventi di restauro9, per procedere ai quali è necessario rimuovere la statua dal tempio o addirittura la “presenza” del dio dal suo supporto fisico10. Questa interruzione molesta delle normali attività provoca l’ira del dio, che potrebbe abbandonare del tutto la sua residenza privando la città di quella abbondanza che assicura tramite la sua presenza11. Il difficile momento di passaggio è esorcizzato mediante l’intervento del prete lamentatore (g a l a ), il cui compito principale12 è quello di pacificare il cuore adirato del dio mediante il canto di lamentazioni13. Queste composizioni hanno una lunga tradizione ed evoluzione, ma la loro origine è vincolata a una serie di eventi storici precisi: ovvero la caduta del regno di Agade e, successivamente, la fine della III dinastia di Ur. Eventi storici traumatici, riletti a posteriori, come estrema conseguenza dell’abbandono della città da parte del dio, ma di questo tratteròin dettaglio più avanti.
Ogni tempio ha una sua specificità ed è contraddistinto da un nome proprio14, che ne indica o evoca le funzioni o le caratteristiche. Il nome del tempio può, infatti, far riferimento alla parte del cosmo attribuita al dio durante la creazione15 o descriverne le mirabili prerogative e l’aspetto maestoso. Il tempio è una struttura complessa, composta da vari edifici destinati non solo al culto, ma anche alle attività artigianali e amministrative. La parte più rilevante della struttura è la ziqqurat16, la sopraelevazione artificiale che come una montagna domina il paesaggio pianeggiante della Mesopotamia. Il suo profilo a gradoni rievoca una scala protesa verso il cielo, i suoi spigoli sono
orientati verso i quattro punti cardinali. Tutto concorre a evocare la posizione di centro dell’universo (“le quattro parti del mondo”)17 e la funzione di asse cosmico tra cielo e terra svolta dalla ziqqurat. Epiteti e nomi di templi celebrano queste caratteristiche: il tempio abzu di Enki è definito “il pilastro (d i m - g a l ) del cielo e della terra” (Enki e l’ordine del mondo, 10); il Ki’ur in Nippur è posto al centro dei quattro punti cardinali in d u r- a n - k i “il legame del cielo e della terra” (Inno a Enlil (A), 67), l’area sacra di Nippur, ma anche un sinonimo della stessa città quale centro del cosmo.

Lo sviluppo verticale del tempio punta verso l’alto, ovvero il cielo, dimora degli dèi, e verso il basso, l’abisso delle acque sotterranee (abzu)18.
Tempio, grande recinto, che raggiunge il cielo,
tempio, retto e grande, che raggiunge il cielo,
tempio, grande corona, che raggiunge il cielo,
tempio, arcobaleno, che raggiunge il cielo,
tempio, il cui diadema, si estende fino al centro del cielo,
le cui fondamenta poggiano nell’abzu,
la cui ombra copre tutti i paesi.
(Inno al tempio di Kesˇ, 31-37)
L’Ekur, tempio splendente, residenza eccelsa, che incute timore,
il suo melam (terrificante splendore) raggiunge il cielo,
la sua ombra si stende su tutti i paesi,
la sua sommità penetra fin dentro il cielo.
(Inno a Enlil (A), 77-80)
(L’E’unir) la tua ziqqurat, santuario eccelso, proteso verso il cielo.
(Inni ai templi, 18)
Il tuo tempio, eccelso, poggia sull’abzu, pilastro del cielo e della terra.
(Enki e l’ordine del mondo, 10)
Il tempio, poggiando le sue fondamenta nel profondo abzu, dimora del
dio Enki, si assicura, radicato come un albero, una stabilità cosmica, ma anche una primordialità, in quanto l’abzu è il luogo primigenio da cui proviene la materia prima, l’argilla magicamente plasmata con cui Enki, artigiano per eccellenza, ha creato nel tempo del mito19.
Elemento costitutivo e rilevante dell’area sacra, è dunque la ziqqurat, che viene identificata, pars pro toto, con l’intera struttura templare20. Anche la città si identifica, a sua volta, con il tempio, in quanto sede attribuita al dio nell’atto cosmogonico e da questo fondata.

Città, sacra abitazione di Enlil,
Nippur, santuario amato del padre, il grande monte,

terrazza di abbondanza, Ekur, tempio splendente, che si erge dal suolo, come un alto monte che si erge, è cresciuto in un luogo puro.
(Inno a Enlil (A), 35-38)
Città che hai attaccato l’Ekur – esso era Enlil!
Agade che hai attaccato l’Ekur – esso era Enlil!
(La maledizione di Agade, 225-226)

 
La città, sede dell’ordine
 
L’identificazione della città con il dio e il suo tempio è totale, e lo stesso nome della città può richiamare o essere espresso mediante gli ideogrammi che compongono il nome del dio. Il caso di Nippur21, sede del capo del pantheon e centro della religiosità sumerica, è sicuramente il più noto e meglio documentato, ma non certo l’unico.

La città, ovvero il tempio, in quanto residenza del dio, esiste fin dalle origini, pre-esiste all’uomo. Nel tempo del mito sono gli dèi ad abitare le città, nelle loro residenze (i templi), e lì si svolgono le loro vicende. Nel ciclo dei miti di Enlil, i fatti si succedono a Nippur (Enlil e Ninlil) e nella città della sua futura sposa, ovvero Eresˇ (Enlil e Sud). Nusku, attendente e messaggero di
Enlil, durante le trattative matrimoniali fa la spola tra la residenza del suo padrone, l’Ekur, e quella della madre di Sud, la dea Nisaba.
Gli uomini non vi appaiono mai perché non sono ancora stati creati22. La città, spazio ordinato e sottratto al caos, è indipendente dall’uomo e funziona autonomamente per la sola presenza del dio. È lo stesso dio a procedere alla costruzione della sua residenza, assicurandone la vita mediante la provvigione d’acqua23.
Il signore, il più grande in cielo e terra, che ben conosce la legge,
in Duranki ha posto la sua residenza, lui di grande intelletto, e ha costruito magnificamente il Ki’ur, il luogo vasto.
...
Enlil, dopo che hai tracciato nel luogo (il perimetro) della tua sacra abitazione,
hai costruito una città per te, Nippur.
Il Ki’ur, monte, il tuo puro luogo, hai provvisto d’acqua,
in mezzo ai quattro punti cardinali lo hai costruito in Duranki.
(Inno a Enlil (A), 10-13, 65-68)
Nel caso di Dilmun (Enki e Ninhursagˆa), la città, così come le sue parti costituenti, esiste già in verbo prima dell’atto cosmogonico, mediante il quale il dio, stabilendovi la sua residenza, quindi fondando il suo tempio e abitandola, la realizza.
La città è la forma che assume l’ordine sul caos. Il dio assicura quella
armonia che permette il corretto funzionamento del cosmo mediante la sua presenza e grazie ai m e , le “prerogative” di cui il dio è depositario.
Per poter funzionare anche gli Inferi sono strutturati come una città,
cinta da sette mura con altrettante porte, dominata al centro dal palazzo dove si riunisce l’assemblea e dove risiede il loro rappresentante, la dea Eresˇkigal.
Essendo, tuttavia, un luogo speciale, anche alcune delle leggi che lo governano sono peculiari, tra le quali la più importante vieta a chiunque vi entri di uscirne24; ma, soprattutto, variano le dimensioni: gli Inferi sono “il vasto luogo” (k i - g a l ), dove abitano i defunti, somma delle generazioni passate, il cui numero supera quello dei viventi, come è ricordato dalla succitata Eresˇkigal o da sua sorella Isˇtar quando minacciano di spalancare le porte della città dei morti affinché questi salgano a divorare i vivi. Per l’uomo “sumerico” il valore più alto è quello della vita comunitaria. Lo sforzo congiunto è necessario alla sopravvivenza in un ambiente in cui il singolo difficilmente avrebbe possibilità di vivere, se non in uno stato prossimo a quello degli animali25. Sebbene l’ordine sia assicurato dal dio e da questo dipenda, la comunità mediante il suo rappresentante può partecipare al giusto funzionamento della città, seguendo il volere del dio e compiendo i riti necessari. L’uomo, l’essere più vicino alla divinità nel creato, viene alla luce nel tempio del dio e solo nella città può vivere, unico luogo organizzato, dove condivide con il dio l’armonia delle cose e l’aspirazione all’ordine. La città è il suo ambiente naturale ed è uno spazio fortemente connotato. Il dio ne ha tracciato il perimetro e la pianta, e vi ha imposto l’ordine. Al suo interno si concentrano tutte le attività umane26. La comunità non è costituita dai cittadini, ma è la città, luogo di armonia, a determinare lo status e a rendere tali i suoi cittadini, ovvero coloro che abitano entro le sue mura.

Ostilità, parola (var.: lingua) non retta,
parola cambiata, cosa cambiata e non conveniente,
oppressione, frode, lamento,
occhio torvo, malevolenza, calunnia,
arroganza, non mantener la parola, egoismo, vanità –
città in cui tali cose proibite non entrano!
Nippur, i cui quartieri (lit.: braccia) sono come un’ampia rete,
al cui interno l’aquila hurin distende i suoi artigli
(e) il cattivo e il malvagio non sfuggono alla sua presa.
Città dotata di rettitudine,
che ha fatto di giustizia e ordine un possesso eterno.
In abiti ben lindi ai moli sta.
Il fratello minore rispetta il maggiore, ci si comporta umanamente,
si presta orecchio alla parola paterna, si raccolgono i benefici,
il figlio si comporta con la madre con modestia e timore, l’autorità paterna dura
a lungo.
(Inno a Enlil (A), 20-34)

Inanna dona queste qualità agli abitanti di Agade, dopo aver trasferito la
sua residenza nella città steppa: a questi sono ignoti i modi di preparazione di cibo e bevande (il pane e la birra), di rivolgersi correttamente agli dèi in preghiera, ed è negato persino il diritto alla residenza (vd. n. 39 e 41).

Ella donò alle sue vecchie la riflessione,
Ella donò ai suoi vecchi l’autorità,
Ella donò alle ragazze il luogo dei giochi,
Ella donò ai ragazzi la forza delle armi,
Ella donò ai bambini un cuore gioioso.
(La maledizione di Agade, 28-34)
Queste caratteristiche non sono proprie degli individui che costituiscono la comunità, ma sono ad essi attribuite in quanto appartenenti ad uno spazio ordinato (la città), dove vige il corretto ordine. Quando l’armonia tra il dio e la comunità urbana viene meno, il dio allontanandosi dalla città priverà gli uomini di queste prerogative.

Le mura

 
Barriera fisica tra il dentro e il fuori, l’ordine e il caos, l’urbano e il nonurbano,abitato e deserto, è il muro di cinta. Se il dio stabilisce il perimetro della città, è l’uomo a costruire le mura per rispondere a una funzione prettamente umana, quella difensiva, non contemplata nella visione teologica, secondo la quale è il dio che governa la città ed è lui che ne stabilisce le sorti nel consiglio divino. Pertanto i riferimenti alle mura di cinta delle città sumeriche nei testi mitologici e liturgici sono piuttosto rari, con due importanti eccezioni.La prima riguarda il genere delle lamentazioni, apocrifa descrizione della distruzione di città avvenuta alla fine della III dinastia di Ur, ma che ha un precedente storico e letterario (La maledizione di Agade) nelle vicende che portarono alla fine del primo tentativo duraturo di unificazione della Mesopotamia meridionale, avvenuto sotto i re di Agade. In queste composizioni, le mura di cinta appaiono come il simbolo dell’impotenza umana davanti alla decisione divina: nonostante la loro maestosità nulla possono contro la tempesta distruttiva ordinata dal consiglio degli dèi. Inoltre le mura, sopravvivendo alla distruzione della città, saranno, assieme al suo nome, l’unica vestigia e memoria della transitorietà umana.

O città, il tuo nome esiste (ancora, ma) tu sei stata distrutta.
O città, il tuo muro è (ancora) sollevato, (ma) il tuo paese è perito.
(Lamentazione per Ur, 64-65).
La seconda eccezione riguarda una tradizione che fa capo a Uruk, tra le
più antiche e maestose città dell’antichità, eccezionale non solo per i parametri
della moderna storiografia27, ma per la stessa civiltà mesopotamica, che

 

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