Il concetto di male nelle tradizioni dell’antica Mesopotamia di Lorenzo Verderame – "Sapienza" Università di Roma

Bozza del contributo: Verderame L. (2014). Bene e male nell’Oriente antico assiro–babilonese, in G. Mura, Bene e male nelle religioni, Roma, 45-56
 
Nella regione dell’antica Mesopotamia si sono avvicendate nell’arco di circa due millenni  - grosso modo dalla metà del III alla metà del I a.C. - diverse culture che si sono espresse mediante la scrittura cuneiforme e la cui produzione letteraria può essere compresa nelle due grandi tradizioni, quella in lingua sumerica e quella in lingua accadica1. Nessuna di queste tradizioni ci ha lasciato una trattazione esaustiva sul male, né tanto meno sembra che questo tipo di spiegazione in generale interessasse la mentalità mesopotamica. Abbiamo invece riferimenti indiretti e riflessioni in composizioni di vario genere che saranno l’argomento di questo contributo.  
In assenza dunque di una formulazione chiara del concetto di male dalla prospettiva mesopotamica, un punto di partenza necessario è quello di stabilire se esistano specifici termini che esprimano il concetto di male e del suo opposto, il bene, e se questi si adattino, riflettano o traducano, per quanto in maniera imperfetta, quelli utilizzati nella nostra cultura. Il sumerico così come l’accadico distinguono due radici che esprimono uno stato e da cui si derivano due aggettivi che ben si adattano all’ampio spettro semantico dei nostri termini “cattivo” e “buono”. Si tratta del sumerico HUL e SAG e dell’accadico lemnu e damqu. Limitando l’uso di questi termini allo specifico aspetto che qui ci interessa, notiamo che essi ruotano attorno al concetto di benessere, espresso in accadico dal verbo šalāmu, derivato da una comune radice semitica *slm2. Questo benessere è inteso in un senso ampio in quanto nella visione dell’antica Mesopotamia un buono stato fisico, ovvero la salute, è inscindibile da quello psichico, sociale, economico etc. Tutti questi aspetti sono collegati e inscindibili in una visione olistica dell’essere nell’antica Mesopotamia3. 
La variazione in senso negativo dal normale stato di benessere è definito dal termine sumerico GIG e dall’accadico murṣu (*mrṣ). Generalmente e genericamente tradotto come malattia, il termine invece abbraccia l’ampio spettro semantico legato al concetto di sofferenza, sventura, sfortuna. Negazione del benessere, la sofferenza fisica è dunque anch’essa inscindibile da quella psichica, dalla sfortuna in affari, dall’emarginazione sociale, e così via. Originate tutte dalla stessa causa, ovvero aspetti differenti di un medesimo problema, sono espressione della stessa visione olistica dell’opposta salute/fortuna.
Sebbene dalle due radici legate al concetto di buono e cattivo si derivino altrettante forme nominali astratte che potremmo letteralmente tradurre come “bene” (damiqtu / SAG) e “male” (lemuttu / HUL), i due termini non riflettono pienamente il valore assoluto che hanno i nostri concetti di bene e male. In una cultura politeistica come quella mesopotamica non vi è una polarizzazione o personificazione del male4. Sebbene le divinità infere per loro natura appaiano come maggiormente temibili, in realtà ciascuna divinità del pantheon preposta a un determinato ambito o sfera esprime la dualità e coesistenza dei concetti bene/male mediante la possibilità di concedere o negare quelle prerogative cui è preposta. L’esempio più chiaro è forse quello delle cosiddette divinità legate alla sfera terapeutica: benigne concedono i loro favori fornendo salute, curando e aiutando la nascita; maligne colpiscono e uccidono. Inni e preghiere insistono su questa duplice natura della divinità mirando a favorire l’una e scongiurare l’altra.
Le cause dirette dell’interruzione dello stato di benessere possono essere l’infrazione di un divieto, l’intervento di un agente nocivo umano (strega o stregone) o extra-umano (demoni), o della stessa divinità. Sono tuttavia soprattuto i demoni a incarnare il ruolo di agenti maligni, spesso identificati con le stesse malattie. Sono esseri intermediari soggiogati agli dèi di cui eseguono gli ordini5.  
A livello mitico il male è funzionale all’armonia del cosmo e le sue cause sono legate alla natura stessa dell’uomo. In principio gli dèi crearono gli uomini per sostituirli nella fatica del lavoro. Questa prima umanità non conosceva la morte per cui nel giro di poche generazioni la terra fu sovrappopolata e il rumore prodotto dalla brulicante umanità impediva il riposo degli dèi. Questi decisero dunque di porre fine all’umanità mediante il diluvio. Una nuova umanità fu creata e per ovviare al precedente errore fu stabilito un limite di tempo e inoltre furono introdotte malattie e altre sventure che potessero decimare gli uomini e controllarne la proliferazione. In questa visione il male nelle sue molteplici forme (malattie, sofferenza, demoni) è inteso come un elemento necessario a mantenere l’armonia del cosmo6. In tale prospettiva il male assume una connotazione prettamente fisica. Le azioni degli agenti maligni, umani o extra-umani, sono vincolate all’idea del tocco e del contagio. L’ampia letteratura di natura divinatoria e terapeutica (rituali, scongiuri, etc.) testimonia degli sforzi atti a prevenire, diagnosticare o curare dalle più svariate cause del male. Fuori dalla visione lineare, funzionale e fondante proposta dai miti, la riflessione sul male e sulla sofferenza trova un’espressione più ampia, personale e complessa in una serie di composizioni generalmente raccolte sotto l’etichetta di “letteratura sapienziale”7. Si tratta di proverbi, istruzioni, ammonimenti, detti, ma anche di composizioni estremamente differenti tra loro che, tuttavia, sono accomunate da una riflessione sulle cause della sofferenza. In queste composizioni è promossa la visione del singolo, dei suoi rapporti e delle conseguenze delle sue azioni nei confronti degli altri uomini o degli dèi. L’interrogativo dell’uomo sull’insensata e ingiustificata sofferenza trova duedifferenti e opposte spiegazioni, una che potremmo definire di natura teologica, l’altra invece che propone una visione scettica.
La prima giustificazione è quella attorno a cui ruotano una serie di composizioni che descrivono il disagio e l’angoscia determinate dallo scompenso tra una vita retta e lo stato di disgrazia in cui versa il protagonista. Si tratta del motivo del “giusto sofferente”, diffuso nell’area del Vicino Oriente e di cui l’esempio più noto è sicuramente quello del testo biblico del Giobbe8. Ispirate a questo motivo letterario ci sono note diverse composizioni mesopotamiche, la più antica delle quali (Il dialogo tra un uomo e il suo dio), in lingua sumerica, risale al principio del secondo millennio e la più recente, in accadico e composta di circa cinquecento linee divise in quattro tavole, al principio del primo millennio (Ludlul bēl nēmeqi).
Il tema centrale di queste composizioni è la parabola dell’uomo retto che da uno stato di benessere inizia la sua disgraziata discesa attraverso varie sventure e sofferenze per poi riuscire a risalire e riacquisire il suo iniziale stato grazie all’intervento divino. Causa prima delle sue sventure e della sua riabilitazione è la benevolenza, e dunque la protezione divina, negata in prima istanza e concessa successivamente.  
Queste composizioni sono strutturate intorno alla forma del dialogo tra il sofferente e il proprio dio. Quest’ultimo generalmente non risponde per cui potremmo anche definire le composizioni come un monologo in cui il sofferente rivolgendosi al proprio dio narra le sue sventure in prima persona.  
Il sofferente è colpito da ogni tipo di sofferenza fisica. Emarginato a livello sociale, infelice nell’ambiente domestico, superato da tutti negli affari e nella cosa pubblica, vive ed è trattato come un morto vivente. Non conosce la causa delle sue sventure. Quando cerca di appurarla mediante gli strumenti a disposizione, ovvero le varie tecniche divinatorie, queste si rivelano inutili, così come lo sono il ricorso a sacrifici e preghiere. Al limite dello stato di disperazione e prostrazione, quando già è con un piede nella tomba il sofferente è riscattato da quella stessa divinità che privandolo della sua protezione lo aveva condannato a questo stato di disgrazia.Questa visione si basa sul principio della dualità della divinità che concede o priva più sopra accennato e promuove una morale incentrata sull’accettazione e obbedienza del volere divino. Quest’ultimo è imperscrutabile e vani si dimostrano tutti gli sforzi dell’uomo, anche quelli che si inquadrano all’interno delle pratiche della religione ufficiale (preghiere, sacrifici, divinazione).
La visione scettica si ritrova invece in una serie di composizioni quasi sempre strutturate attorno alla forma del dialogo. Questa permette di far sostenere al protagonista e al suo interlocutore punti di vista opposti su un medesimo argomento. In queste composizioni emerge un relativismo e un’inutilità delle scelte umane, che se nel motivo del giusto sofferente si risolvono nell’obbedienza al divino, in queste altre composizioni spingono verso la direzione contraria.
La riflessione sull’intervento divino nelle umane vicende e sul rapporto tra devozione e benessere è infatti al centro di un altro componimento in lingua accadica noto come la Teodicea babilonese9. Il testo, databile al primo millennio avanti Cristo,⁠ si struttura come un dialogo tra un uomo e un suo amico, i quali presentano alternativamente la propria opinione su una questione, introdotta dal protagonista (obbedienza agli dèi, etica, etc.). Partendo da tristi esperienze personali, egli esprime la sua amara constatazione che la devozione verso la divinità e il rispetto delle leggi umane non sono ripagate dal successo nella vita. Il compagno risponde commentando come l’esperienza personale e una scorretta valutazione abbiano portato il protagonista ad avere una visione negativa, e promuove la morale espressa dal motivo del giusto sofferente, per cui l’unica soluzione è l’accettazione dell’insondabile volere divino.
 
«O saggio, [...], vieni, voglio parlarti,
[...] voglio farti sapere,
[...] della sofferenza, senza sosta voglio lodarti.
Dov’è un uomo così pieno di sagacia come te?
Dove un saggio pari a te?
Dov’è un uomo di consiglio cui possa raccontare le mie sofferenze?
Sono (un uomo) finito! Il male si annida nel mio cuore!
Ero il figlio minore, il destino si portò via il genitore (padre),
il grembo che mi generò (madre) tornò alla terra del non ritorno (Inferi).
Il padre e la genitrice mi lasciarono senza una guida.»
«Stimato amico, ciò che tu dici è oscuro.
Caro, tu hai covato il male ...
la tua mente lucida hai trasformato come quella di un irragionevole,
la lucentezza del tuo aspetto hai fatto divenire scura.
I nostri padri ci lasciano e vanno per il sentiero della morte,
Anch’io attraverserò il fiume Ḫubur, (secondo quanto) è detto dall’antichità.
Se osservi l’umanità nella sua interezza,
il figlio del povero avanza, qualcuno lo ha aiutato ad arricchirsi,
al benestante e al ricco, chi vuole fargli del bene?
Colui che mira il volto del dio ha un protettore,
l’umile che teme la dea accumula ricchezza!»
(Teodicea babilonese 1-22)
 
Nonostante l’iniziale posizione di preminenza che sembra godere l’amico, quest’ultimo presto si trova costretto a concedere sempre più spazio alle argomentazioni del protagonista, riconoscendone le ragioni. La composizione si conclude in forma piuttosto ambigua con il protagonista che si rimette all’aiuto non più della divinità come nel giusto sofferente, ma dello stesso amico.
 
Sei compassionevole, amico mio; comprendi la (mia) sofferenza. Aiutami, sappi della (mia) sofferenza, che ti sia nota!
Sebbene io sia umile, erudito e supplice,
neppure per un momento ho avuto aiuto e soccorso,
avrei voluto attraversare le piazze dela mia città senza essere notato, la mia voce non era alta, mantenevo il mio parlare basso,
il mio capo non levavo, continuando a fissare il suolo,
non ho preso a tessere lodi servilmente tra i miei colleghi.
Possa aiutarmi il dio che mi ha buttato via,
possa avere pietà la dea che mi [ha abbandonato],
Il pastore, Šamaš, pascoli il popolo come un dio.
(Teodicea babilonese 287-297)
 
Molto simile per prospettiva è un’altra composizione in lingua accadica, strutturata in forma di dialogo tra un padrone e il suo servo, nota come Dialogo sul pessimismo o, dall’incipit, Servo presto vieni qui! (Arad mitanguranni)10. La composizione di natura sia filosofica che satirica presenta lo stesso sviluppo della teodicea, ma questa volta al servo è lasciato il duplice ruolo di fornire gli opposti punti di vista. Infatti il padrone si propone di fare tutta una serie di cose (recarsi a palazzo, mangiare, lo svago della caccia, costituire una famiglia, intentare una causa, agire sconsideratamente, amare una donna, compiere dei sacrifici, prestare a credito, aiutare la comunità) di cui il servo descrive gli aspetti positivi; quando il padrone decide di non farlo più il servo nedescrive gli aspetti negativi. Al termine della lunga sequela di propositi, il padrone si chiede dunque cosa sia giusto e la morte sembra essere l’unica soluzione.
 
«Servo, ascolta!» «Ecco, padrone, ecco»
«Dunque, cosa è giusto?»
«Rompere la mia e la tua nuca
e essere buttati al fiume, ciò è bene
“chi è talmente alto da raggiungere (lit. salire) al cielo
e chi è così ampio da contenere la terra?”»
«No servo! Io ti ucciderò e prima ti renderò (il dovuto)»
«E il mio padrone sopravviverà (solo) tre giorni dopo di me!» (Dialogo del pessimismo 79-86)
In altre composizioni la riflessione sul male porta alla constatazione dell’ineludibilità del dolore e della brevità della vita. In composizioni come nella Ballata degli eroi antichi11, le imprese e i successi anche dei grandi uomini di cui l’epica celebra le gesta, sfumano come polvere che si disperde al vento di fronte alla morte e all’oblio.
Dov’è Gilgameš che cercava la sua vita (immortalità) come Ziusudra? Dov’è Huwawa [...]?
Dov’è Enkidu, la cui forza non aveva pari nel paese?
Dov’è Bazi, dov’è Zizi [...]?
Dove sono i grandi re del passato fino ad ora?
Non sono stati partoriti, non sono nati?
Una vita senza gioia, cos’ha più della morte?
Possa Siriš farti gioire come un figlio.
O uomo, cui il tuo dio stabilmente [...],
allontana e rimuovi il lamento!
(Ballata degli antichi eroi 13-22)
Questa rassegnazione di fronte al male e alla morte si riflette nei frequenti richiami e nella promozione delle gioie elementari che costituiscono la vita dell’uomo. Questi valori semplici e universali nell’epopea di Gilgameš, sono messi in bocca alla grande dea Ištar. La dea sotto le smentite spoglie di una taverniera incontra il nostro eroe alla disperata ricerca dell’immortalità, che vorrebbe riconsegnare all’umanità per far scomparire il dolore e la sofferenza. Di fronte all’irrazionale desiderio dell’eroe la dea risponde:
«O Gilgameš perché vaghi invano?
La vita che tu stai cercando non la troverai mai, quando gli dèi crearono l’umanità,
a essa assegnarono la morte
e tennero per sé la vita!
Ma tu, o Gilgameš, che il tuo ventre sia sazio,
sii felice giorno e notte!
...
gioisci della vista del bambino che tiene la tua mano e che tua moglie goda del tuo abbraccio,
poiché questo è il destino dell’uomo!»
 
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1 Per una panoramica della letteratura sumerica e accadica vd. D.O. Edzard e W. Röllig, Literatur, in D.O. Edzard (a cura di), Reallexikon Der Assyriologie, 7, Walter de Gruyter, Berlin - New York 1987. Tra le antologie di testi in traduzione vd. J. Bottéro e S.N. Kramer, Uomini e dèi della Mesopotamia. Alle origini della mitologia, Einaudi, Torino 1992; G.R. Castellino, Testi Sumerici e Accadici, UTET, Torino 1977; B.R. Foster, Before the Muses : An Anthology of Akkadian Literature, CDL, Bethesda 2005, 3 ed.; T. Jacobsen, The Harps that Once ... Sumerian Poetry in Translation, Yale University Press, New Haven - London 1987; G. Pettinato, Mitologia sumerica, Classici delle religioni UTET, Torino 2001.
2 Il corrispondente termine sumerico, SILIM, è un chiaro prestito dalla medesima radice semitica.
3 G. Zisa, Sofferenza, malessere e disgrazia. Metafore del dolore e senso del male nell’opera paleo-babilonese “Un uomo e il suo dio”: un approccio interdisciplinare, in «Historiae», n. 9, 2012, pp. 1-30.
4 A. Brelich, Der Polytheismus, in «Numen», n. 7, 1960, 123-136; M.G. Biga e A.M.G. Capomacchia, Il politeismo vicino-orientale. Introduzione alla storia delle religioni del Vicino Oriente antico, Libreria dello Stato, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008; Mander P., La religione dell'antica Mesopotamia, Carocci, Roma 2009.
5 L. Verderame (a cura di), Demoni Mesopotamici, SMSR - Studi e materiali di storia delle religioni 77/2, Morcelliana, Brescia 2011; Id., “Their Divinity is Different, Their Nature is Distinct!” : Nature, Origin, and Features of Demons in Akkadian Literature, in «Archiv für Religionsgeschichte», n. 14, 2012, pp. 117-127; Id. Osservazioni a margine dei concetti di “ibrido” e “mostro” in Mesopotamia, in I. Baglioni (a cura di), Monstra. Costruzione e percezione delle entità ibride e mostruose nel Mediterraneo antico, I, Quasar, Roma 2013.
6 L. Verderame, La morte nelle culture dell'antica Mesopotamia, in F.P. de Ceglia (a cura di), Le dimensioni della linea. Storia dei confini tra vita e morte. Franco Angeli, Milano 2014 (in stampa).
7 B. Alster, Wisdom of Ancient Sumer, CDL, Bethesda 2005; G.R. Castellino, Sapienza babilonese, Società editrice internazionale, Torino 1962; S.J. Denning-Bolle, Wisdom in Akkadian Literature : Expression, Instruction, Dialogue, Ex Oriente Lux, Leiden 1992; W.G. Lambert, Babylonian Wisdom Literature, Clarendon Press, Oxford 1960; A. Rositani, La sapienza nelle culture mesopotamiche, in A. Ercolani e P. Xella (a cura di), La Sapienza nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo antichi. Antologia di testi, Carocci, Roma 2013; L. Verderame, Letteratura sapienziale e legale: la riflessione sulla vita, in P. Mander (a cura di), Percorsi nelle letterature cuneiformi dell’antica Mesopotamia, Carocci, Roma 2014 (in preparazione).
8 L. Verderame, Il tema del “giusto sofferente” nell'antica Mesopotamia, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» n. 80, 2014 (in stampa).
9 G. Buccellati, Il cimento dell’estro e della ragione: la dimensione scribale della cosiddetta ‘Teodicea babilonese’, in P. Marassini (a cura di), Semitic and Assyriological Studies Presented to Pelio Fronzaroli, Harrassowitz, Wiesbaden 2004, pp. 97-104; G.R. Castellino, Testi Sumerici e Accadici, op. cit., pp. 493-500; S. Ponchia, La Palma e il tamarisco e altri dialoghi mesopotamici, Marsilio, Venezia 1996, pp. 73-82; A. Rositani, La sapienza nelle culture mesopotamiche, op. cit., pp. 165-173.
10 G.R. Castellino, Testi Sumerici e Accadici, op. cit., pp. 501-508; F. D’Agostino, Le sezioni 4 e 4a del “Dialogo umoristico babilonese sul pessimismo” (un tentativo di interpretazione), in S. Graziani (a cura di), Studi sul Vicino Oriente antico dedicati alla memoria di Luigi Cagni, I-IV, Istituto Universitario Orientale, Napoli 2000, pp. 135-145; G. Minunno, Sull’Arad mitanguranni come documento storico-religioso, in «Studi Epigrafici e Linguistici sul Vicino Oriente Antico», n. 27, 2010, pp. 9-17; S. Ponchia, La Palma e il tamarisco, op. cit., pp. 83-85; A. Rositani, La sapienza nelle culture mesopotamiche, op. cit., pp. 173-175.
11 Il testo è una bilingue sumero-accadica nota da diverse copie provenienti dalla Siria (Ugarit, Emar), vd. D. Arnaud, Corpus des textes de bibliothèque de Ras Shamra-Ougarit (1936-2000) en sumérien, babylonien et assyrien, Ausa, Sabadell 2007, pp. 142-148.
 
 Bibliografia
 
Alster B., Wisdom of Ancient Sumer, CDL, Bethesda 2005.  
Biga M.G. e Capomacchia A.M.G., Il politeismo vicino-orientale. Introduzione alla storia delle religioni del Vicino Oriente antico, Libreria dello Stato, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008. 
Bottéro J. e Kramer S.N., Uomini e dèi della Mesopotamia. Alle origini della mitologia, Einaudi,
Torino 1992.
Brelich A., Der Polytheismus, in «Numen», n. 7, 1960, pp. 123-136 (trad. it. A. Brelich, Il
politeismo, Editori Riuniti, Roma 2007).
Buccellati G., Il cimento dell’estro e della ragione: la dimensione scribale della cosiddetta
‘Teodicea babilonese’, in P. Marassini (a cura di), Semitic and Assyriological Studies Presented to Pelio Fronzaroli, Harrassowitz, Wiesbaden 2004.
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Castellino G.R., Testi Sumerici e Accadici, UTET, Torino 1977.
D’Agostino F., Le sezioni 4 e 4a del “Dialogo umoristico babilonese sul pessimismo” (un tentativo di interpretazione), in S. Graziani (a cura di), Studi sul Vicino Oriente antico dedicati alla memoria di Luigi Cagni, I-IV, Istituto Universitario Orientale, Napoli 2000.
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